lunedì, Novembre 11, 2024
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RITORNO AL PAESE

Dopo le note curve del bivio Agnone-Capracotta si apriva l’ampia visione della piana di Agnone, distesa lungo il dorso della montagna come la sella sulla spina dorsale di un somaro: intorno, le creste dei monti più alte, il gradino di Prato Gentile e il folto vello boscoso del cerreto, al di là del quale c’era Roio.

Alfio era disturbato nel godimento della vista di quel paesaggio familiare dal continuo parlare di sua moglie, ma comunque il suo animo s’apriva, come sempre, nel respirare quell’aria, l’aria del suo paese, della sua infanzia, del suo passato.

Ad Agnone si fermarono sulla piazza Italia, come erano soliti, per comperare qualcosa: un po’ di frutta, pomodori, qualche scamorza e mozzarella fresca, una focaccia di pane calda di forno.

Ripartiti, la strada s’inerpicava e ridiscendeva in mezzo ad un vasto altopiano senza alberi, costellato qua e là di casali fra il fieno e le rocce.

Quante volte aveva fatto quel percorso nella piccola corriera rossa di Cerella, che si prendeva ad Agnone dopo una sosta di circa mezz’ora, scesi dalla più grande corriera azzurra che in circa cinque ore aveva coperto i duecento chilometri o poco più che dividono Roma dalla cittadina molisana!

Ad un certo punto la piccola corriera era solita fermarsi, in piena campagna, e l’autista scendeva a prelevare un cestino di ricotta messo sul bordo della strada, in cambio del quale lasciava un contenitore vuoto: tutto intorno, il deserto.

Ogni tanto, a una curva, saliva una donna avvolta nello scialle triangolare con una lunga frangia: emanava odore di stalla, di pecora, di formaggio, era bella, molto spesso, con occhi azzurri e capelli chiari, giovane, ma sempre con quell’odore addosso e lineamenti duri, marcati.

Oppure era un contadino a salire, con la barba non rasata, la giacchetta aperta su una camicia a quadroni, stile cow-boy, il bordo giallastro della canottiera che si vedeva sotto i primi bottoni slacciati, le mani rugose e callose che penzolavano fuori dalla manica troppo corta. Ogni tanto qualcuno scendeva.

La corriera c’era ancora, ma lui era tanto che non la prendeva più, oramai. Si stancava troppo, ora, non ce l’avrebbe fatta a sopportare senza conseguenze un viaggio così pesante e scomodo.

Quand’era bambino, ricordava, i vecchi li facevano anche a piedi quei venti chilometri, altrimenti il mezzo adibito era la mula, o al massimo il cavallo.

L’aveva fatta anche lui a cavallo quella strada, parecchie volte, dietro suo padre. Ricordava un giorno d’inverno in cui aveva dovuto farla da solo per andare a chiamare il dottore ad Agnone. Era già buio, in inverno le giornate sono corte, specialmente fra i monti. Arrivato all’altezza del cimitero, circondato dal terrore derivante dai racconti terrificanti delle nonne e delle vecchie zie, cominciò a vedere delle luci che si muovevano: i “fuochi fatui” che ballavano la loro macabra danza!

Il sangue gli si gelò nelle vene, i peli si rizzarono, un sudore freddo cominciò a colargli da tutti i pori: nascose la testa fra la criniera del cavallo, per non vedere, e via, al galoppo. Ormai il terrore s’era impossessato di lui: dietro ogni curva si aspettava di vedere uscire da un agguato quei briganti che avevano assalito un suo ricco antenato che tornava con un carico di mercanzie e una carovana di muli dall’Adriatico, dal porto di Pescara.

La carovana era stata sbaragliata, rapinata, il bisnonno bastonato fino ad avere tutte le ossa rotte ed era morto pochi mesi dopo, fra dolori inenarrabili, circondato comunque dalle cure pietose della moglie e dei figli. La famiglia era stata così ridotta sul lastrico, ed aveva dovuto ricominciare tutto da capo.

Se la storia fosse del tutto vero, se fosse un’esagerazione, o addirittura tutta un’invenzione, non l’avrebbe mai saputo: ma allora per lui era vera, era la realtà, e una realtà senza tempo, che poteva essere accaduta cent’anni prima o ieri.

Rina parlava quasi senza interruzione e lui, ogni tanto, automaticamente, doveva rispondere. Ma l’anima era fuori dei finestrini della macchina, coi sassi, in mezzo alle macchie di verde, fra gli alberi, fra i radi cavalli che pascolavano.

Superato Rosello, con le sue case fra le alte rocce – quasi tutti questi paesi sono costruiti in mezzo a speroni di roccia, pésco nel dialetto locale – ecco che lo sguardo si distende su Roio, addormentato sul costolone della montagna in tutta la sua lunghezza, con le maioliche del campanile luccicanti al sole e l’obbrobrio dell’albergo ormai in rovina, una specie di grattacielo una volta azzurro che supera in altezza persino la torre campanaria.

Ecco, sulla sinistra, il cimitero, un piccolo agglomerato di costruzioni bianche, linde e ordinate, dove più di una volta qualche camioncino di venditore ambulante si era incamminato, lasciando la strada principale per la stradina sterrata sulla sinistra, diritta, credendo che quello fosse il paese.

Dopo le ultime curve tutte a salire, finalmente il dirizzone del piccolo corso, e la piazza, dove si ferma la macchina.

I soliti vecchi sulle panchine bianche di pietra si voltarono a guardare. Nessuno di famiglia, anche se sapevano della sua venuta, anche se abitavano proprio lì, sulla destra, nel primo palazzetto sulla piazza.

Eppure era nato lì, in quel paese, quelli erano suo fratello e le sue sorelle, lì aveva ruzzolato e scivolato tante volte sul ghiaccio, aveva fatto a pallate di neve, aveva combinato marachelle, era sceso col padre, sulla mula, fin giù alle vigne, la mattina presto, quando ancora il sole non sfiancava.

Ricordava una volta che il padre gli aveva comandato di tornare a casa da solo e lui si era perduto fra i viottoli bianchi che salivano in alto fino al paese. D’altronde lui non c’era cresciuto, lì, a tre anni era stato mandato in Toscana, dai ricchi zii, in Maremma, e lì aveva trascorso il periodo più felice dell’infanzia. Rivedeva ancora sé stesso bambino, di circa sei anni o poco più, aggrappato disperatamente alla gonna della zia, piangente, esserne strappato per tornare in mezzo al freddo e al buio di quei monti, in mezzo a bambini che parlavano un altro dialetto da quello che ormai era il suo. Dovette dire addio per sempre alle spiagge di Cecina, ai cavalli a branco nella pineta, al mare che brillava lontano fra i rami degli alberi.

Eppure s’era abituato presto al suo paese: s’era ritrovato fra i sassi dell’Abruzzo, durante le mietiture d’estate, quando i bambini restavano i padroni del paese e giocavano per le strade e le piazze semideserte; durante le tristi giornate invernali, imbiancate solo di neve, che s’andava con le assi delle botti per sci a buttarsi dai pendii, con le gambe nude che uscivano dai pantaloncini corti.

Ora i fratelli lo consideravano un estraneo. Aveva tradito. Non aveva più il diritto di tornare, quella non era più casa sua. Aveva studiato in città, ma non aveva messo a frutto i sacrifici del padre per sostenere la famiglia, aiutarla. Se n’era invece fatta un’altra, di famiglia, in città, si era preso una donna della città che guardava con disprezzo al paese, aveva fatto una figlia di città. Era un perfuga.

Cosa voleva ora, perché veniva a spiare la loro vita difficile e stentata di montanari, a sbattergli in faccia la sua diversità, il suo incivilimento esteriore, e quella moglie così lontana, così diversa, così sprezzante?

Nessuno gli venne incontro, alla macchina. E quando lui bussò ed entrò in casa, solo la sorella gli fece un sorriso inebetito dalla malattia. Lesse l’indifferenza, l’astio quasi nel saluto degli altri. Offrì un pacchetto di dolci. “Non ci servono, grazie. Da te non ci serve niente”.

Sentì stringerglisi il cuore, raggelarsi. Sentì per la prima volta, dopo settanta anni, che una parte di sé era morta. Si sentì diviso, dimezzato. Una parte percossa, uccisa, morta, sepolta. L’altra parte sopravviveva, ma era sofferente.

Era la parte estranea a quei monti, al bosco alto sul colle in faccia al paese, alle scale ripide verso la chiesa, alla porta sgangherata di quella che era stata la sua scuola elementare, ai sassi della strada fatti tante volte di corsa sbucciandosi le gambe.

Non diceva niente, a quella parte sopravvissuta, l’aria profumata di prato e di bosco che spirava in quello splendido pomeriggio d’estate, né l’odore della legna da poco tagliata e accatastata per l’inverno.

Aveva cominciato a morire, e quella parte di sé che se n’era andata era rimasta sepolta lassù, fra i monti del paese natìo.

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